Da Buenos Aires a Barcellona, da Zidane a Ronaldinho, standing ovation globale per l’addio al calcio del numero 10 più amato dalle curve e più odiato dalle panchine. Chi fu JRR detto il Muto, il capo carismatico del Boca, che osò sfidare anche Maradona
La vita del numero 10 non è mai stata facile, stretto fra l’estro che spinge per esplodere e le esigenze della squadra, fra i troppi muscoli richiesti per resistere alle pressioni di critici e avversari e la poca propensione alla corsa, specialmente quella di copertura verso la propria metà campo. In questi giorni, dalla purtroppo breve lista di fantasisti e registi contemporanei ancora in attività, è uscito colui che da molti viene considerato l’ultimo vero numero 10 argentino: Juan Román Riquelme.
Lo ha annunciato domenica scorsa in un’intervista rilasciata ad ESPN. Proprio quando le voci di un suo passaggio in Paraguay diventavano insistenti, la doccia fredda: «ho preso la decisione di non giocare più al fútbol» ha dichiarato, «mi è stato chiaro dopo la promozione con l’Argentinos Juniors».
Eduardo Galeano scriveva che per fortuna, “sia pure molto di rado, sui campi di gioco appare qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere avversari, arbitro e pubblico”. Riquelme era questo: non solo un genio del pallone, ma uno sfacciato che incantava le folle con la giocata inaspettata. Non partiva palla al piede per arrivare in porta a tutta velocità - quella non l’ha mai avuta, specialmente negli ultimi anni - ma nel fazzoletto di campo che si ritagliava, per novanta minuti si vedeva più calcio che in interi stadi per intere stagioni.
“Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi” confermerà più di recente Jorge Valdano, ex punta di Real Madrid e della nazionale argentina, in un’antologia di memorie intitolata “Sogni di Futbolandia”.
«Non un giocatore squisito in un’epoca di squisitezze, ma uno squisito quando quasi tutti hanno rinunciato a esserlo, un gourmet in un’epoca di hamburger cotti male» ha puntualizzato sulle pagine del Grafico, il “Guerin Sportivo” d’Argentina, Eduardo Sacheri, nuovo cantore della pelota sulla scia di Soriano e Fontanarrosa.
Ma quelli che “JRR” sapeva dribblare meglio erano gli allenatori: due di loro, Louis Van Gaal al Barcellona e Manuel Pellegrini al Villareal, lo accusavano di scarso rendimento e poca professionalità, chiedendogli di rientrare, pressare il mediano avversario e soprattutto di essere sempre decisivo, più che bello. Lui non lo faceva, ma quando riceveva la palla in mezzo ai piedi era capace di stregare le platee di mezzo mondo con una sola imprevedibile giocata.
Lagunero, lo rimproveravano i cronisti della vecchia scuola - per quel suo perdersi nella “laguna” del centrocampo - paragonandolo agli uccelli dalle lunghe zampe che scrutano pazientemente gli stagni della pampa in cerca di prede. Heladera, “frigorifero”, lo schernivano i detrattori più accaniti, in particolare sulla sponda River Plate, alludendo alla presunta mancanza di passione e corazón che quella sua perenne espressione seria e malinconica poteva suggerire. Román, abituato fin dall’infanzia a ben altri tipi di pressioni, rispondeva alla sua maniera, lasciando il segno soprattutto nei superclasicos con il Millonario.
Alla base dei suoi attriti con gli allenatori, non solo la poca attitudine alla corsa: Riquelme era scomodo perché senza aprire bocca aveva il mondo ai suoi piedi, o meglio, al suo piede destro, a cominciare dai suoi fedelissimi compagni di squadra, salvo rare eccezioni come l’amico-nemico Martín Palermo. Il carisma e la sua personalità infinita facevano del Mudo - il “muto”, appunto, per il suo carattere introverso - un giocatore unico nel panorama mondiale, non solo tecnicamente.
Uno strano alone magico intorno a sé lo faceva somigliare al colonnello Kilgore di Apocalypse Now: come il personaggio di F.F. Coppola interpretato da Robert Duvall non si sarebbe mai fatto un graffio facendo surf in mezzo a napalm e pallottole, così si capiva che, comunque fosse andata la partita o il campionato, Riquelme ne sarebbe uscito sempre vincitore.
Solo con Carlos Bianchi, con il quale riuscirà ad instaurare un solido legame dentro e fuori dal campo, il discorso sarà diverso. Con l’arrivo del tecnico sulla panchina xeneize comincia l’era d’oro del Boca Juniors: Román, divenuto ormai un idolo, vince tre campionati (Apertura ’98, Clausura ’99, Apertura 2000), due Libertadores consecutive (2000 e 2001) e l’Intercontinentale del 2000 contro il Real Madrid galactico di Vicente Del Bosque. Al suo palmarès finale si aggiungeranno altri due tornei nazionali (Apertura 2008 e Apertura 2011) e la Libertadores del 2007.
Quando il pallone era fermo a terra, in attesa di essere calciato, JRR si prendeva tutto il tempo necessario. A volte passava un minuto prima che la punizione venisse battuta, e tutti gli arbitri argentini attendevano insieme al pubblico l’inizio della sua rincorsa perché il gioco potesse riprendere. Era lui a decidere, ancora una volta, quando e come giocare, come il bambino che porta il pallone al campetto dietro casa.
«È un giocatore di quando la vita era lenta e mettevamo una sedia per strada per parlare con i vicini. C’è qualcosa di pedagogico nel gioco di Riquelme, come se ogni volta che entra in contatto con il pallone il gioco si fermasse, come se conoscesse le verità dimenticate del calcio» commenterà ancora Valdano, che di numeri 10 se ne intendeva, spettatore privilegiato della cavalcata più famosa della storia del fútbol, nello stadio Azteca di Città del Messico, al quale Maradona rivolgerà le sue scuse attimi dopo il 2 a 1 all’Inghilterra, per quel passaggio filtrante pensato e per fortuna mai realizzato.
Già nell’inverno argentino del 2012, complice un rapporto problematico col tecnico Falcioni, Riquelme aveva tentato l’addio al calcio giocato: sfumato il quarto trionfo in Libertadores e il sesto titolo in azuloro, probabilmente consapevole di non essere più quello di una volta, dava l’addio al Boca, un addio durato solo un semestre. Nel luglio 2014, dopo il sofferto divorzio - che la temibile curva del Boca mai perdonerà al presidente Angelici - passa in serie B, all’Argentinos Juniors, club che lo ha visto crescere con le scarpette indosso e che ora lo vedrà appenderle al chiodo, con il quale conquista la promozione nella massima divisione.
Nell’anno del ritorno in patria del “pagliaccio” Pablo Aimar, da sempre ammirato e ricambiato dal Mudo, il calcio argentino saluta dunque l’erede, per volere del destino, del numero 10 per definizione, quel Maradona che JRR non ebbe paura di affrontare a viso aperto al momento del suo arrivo alla guida dell’albiceleste: «io e Maradona non abbiamo gli stessi codici, la Selección è un capitolo chiuso per me», il suo commento alla vigilia delle eliminatorie per il mundial sudafricano.
Decine di saluti sono stati postati in queste ore sui social network dagli ex colleghi. Fra questi anche Zinedine Zidane, che non a caso ha ricordato di aver scambiato la maglia con JRR nella sua ultima partita da professionista, un rocambolesco Real Madrid-Villareal del 2006 terminato 3 a 3, inaugurato da un’incornata del francese e concluso con il classico destro riquelmiano dai trenta metri, al quale solo il palo destro di Iker Casillas seppe dire di no. «Nel mia squadra ideale Riquelme giocherebbe sempre» è stato il commento di Zizou, a cui hanno fatto eco gli altri mostri sacri del pallone degli ultimi anni, da Iniesta a Ronaldinho, da Henry a Messi.
Qualcuno si è già affrettato a farlo presidente del Boca entro la fine dell’anno e lui stesso, per il futuro, non ha chiuso la porta a questa eventualità. «Preferirei la poltrona alla panchina, non sono molto in sintonia con i ragazzi di oggi» ha poi spiegato, per la gioia dei nostalgici dei tempi andati. A noi, piace immaginarlo passeggiare mano nella mano con suo figlio per il Caminito de La Boca, col pallone sottobraccio in una fresca giornata primaverile, con quel suo sguardo eternamente malinconico, mentre perfino i suonatori di tango lo guardano impazienti ed impietriti, in attesa di una sua mossa, o chissà, di un sorriso.
Daniele Carpi e Paolo Galassi per Pangea News - America Latina Quotidiana
articolo pubblicato il 10/02/2015
Pangea News