América Latina, Fútbol, Rock'n'Roll

24 giugno 2015

PURO FUTBOL: il lungo addio di Riquelme, l’Argentina applaude l’ultima scena muta

Da Buenos Aires a Barcellona, da Zidane a Ronaldinho, standing ovation globale per l’addio al calcio del numero 10 più amato dalle curve e più odiato dalle panchine. Chi fu JRR detto il Muto, il capo carismatico del Boca, che osò sfidare anche Maradona



La vita del numero 10 non è mai stata facile, stretto fra l’estro che spinge per esplodere e le esigenze della squadra, fra i troppi muscoli richiesti per resistere alle pressioni di critici e avversari e la poca propensione alla corsa, specialmente quella di copertura verso la propria metà campo. In questi giorni, dalla purtroppo breve lista di fantasisti e registi contemporanei ancora in attività, è uscito colui che da molti viene considerato l’ultimo vero numero 10 argentino: Juan Román Riquelme.

Lo ha annunciato domenica scorsa in un’intervista rilasciata ad ESPN. Proprio quando le voci di un suo passaggio in Paraguay diventavano insistenti, la doccia fredda: «ho preso la decisione di non giocare più al fútbol» ha dichiarato, «mi è stato chiaro dopo la promozione con l’Argentinos Juniors».

Eduardo Galeano scriveva che per fortuna, “sia pure molto di rado, sui campi di gioco appare qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere avversari, arbitro e pubblico”. Riquelme era questo: non solo un genio del pallone, ma uno sfacciato che incantava le folle con la giocata inaspettata. Non partiva palla al piede per arrivare in porta a tutta velocità - quella non l’ha mai avuta, specialmente negli ultimi anni - ma nel fazzoletto di campo che si ritagliava, per novanta minuti si vedeva più calcio che in interi stadi per intere stagioni.

“Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi” confermerà più di recente Jorge Valdano, ex punta di Real Madrid e della nazionale argentina, in un’antologia di memorie intitolata “Sogni di Futbolandia”.

«Non un giocatore squisito in un’epoca di squisitezze, ma uno squisito quando quasi tutti hanno rinunciato a esserlo, un gourmet in un’epoca di hamburger cotti male» ha puntualizzato sulle pagine del Grafico, il “Guerin Sportivo” d’Argentina, Eduardo Sacheri, nuovo cantore della pelota sulla scia di Soriano e Fontanarrosa.

Ma quelli che “JRR” sapeva dribblare meglio erano gli allenatori: due di loro, Louis Van Gaal al Barcellona e Manuel Pellegrini al Villareal, lo accusavano di scarso rendimento e poca professionalità, chiedendogli di rientrare, pressare il mediano avversario e soprattutto di essere sempre decisivo, più che bello. Lui non lo faceva, ma quando riceveva la palla in mezzo ai piedi era capace di stregare le platee di mezzo mondo con una sola imprevedibile giocata.

Lagunero, lo rimproveravano i cronisti della vecchia scuola - per quel suo perdersi nella “laguna” del centrocampo - paragonandolo agli uccelli dalle lunghe zampe che scrutano pazientemente gli stagni della pampa in cerca di prede. Heladera, “frigorifero”, lo schernivano i detrattori più accaniti, in particolare sulla sponda River Plate, alludendo alla presunta mancanza di passione e corazón che quella sua perenne espressione seria e malinconica poteva suggerire. Román, abituato fin dall’infanzia a ben altri tipi di pressioni, rispondeva alla sua maniera, lasciando il segno soprattutto nei superclasicos con il Millonario.

Alla base dei suoi attriti con gli allenatori, non solo la poca attitudine alla corsa: Riquelme era scomodo perché senza aprire bocca aveva il mondo ai suoi piedi, o meglio, al suo piede destro, a cominciare dai suoi fedelissimi compagni di squadra, salvo rare eccezioni come l’amico-nemico Martín Palermo. Il carisma e la sua personalità infinita facevano del Mudo - il “muto”, appunto, per il suo carattere introverso - un giocatore unico nel panorama mondiale, non solo tecnicamente.

Uno strano alone magico intorno a sé lo faceva somigliare al colonnello Kilgore di Apocalypse Now: come il personaggio di F.F. Coppola interpretato da Robert Duvall non si sarebbe mai fatto un graffio facendo surf in mezzo a napalm e pallottole, così si capiva che, comunque fosse andata la partita o il campionato, Riquelme ne sarebbe uscito sempre vincitore.

Solo con Carlos Bianchi, con il quale riuscirà ad instaurare un solido legame dentro e fuori dal campo, il discorso sarà diverso. Con l’arrivo del tecnico sulla panchina xeneize comincia l’era d’oro del Boca Juniors: Román, divenuto ormai un idolo, vince tre campionati (Apertura ’98, Clausura ’99, Apertura 2000), due Libertadores consecutive (2000 e 2001) e l’Intercontinentale del 2000 contro il Real Madrid galactico di Vicente Del Bosque. Al suo palmarès finale si aggiungeranno altri due tornei nazionali (Apertura 2008 e Apertura 2011) e la Libertadores del 2007.

Quando il pallone era fermo a terra, in attesa di essere calciato, JRR si prendeva tutto il tempo necessario. A volte passava un minuto prima che la punizione venisse battuta, e tutti gli arbitri argentini attendevano insieme al pubblico l’inizio della sua rincorsa perché il gioco potesse riprendere. Era lui a decidere, ancora una volta, quando e come giocare, come il bambino che porta il pallone al campetto dietro casa.

«È un giocatore di quando la vita era lenta e mettevamo una sedia per strada per parlare con i vicini. C’è qualcosa di pedagogico nel gioco di Riquelme, come se ogni volta che entra in contatto con il pallone il gioco si fermasse, come se conoscesse le verità dimenticate del calcio» commenterà ancora Valdano, che di numeri 10 se ne intendeva, spettatore privilegiato della cavalcata più famosa della storia del fútbol, nello stadio Azteca di Città del Messico, al quale Maradona rivolgerà le sue scuse attimi dopo il 2 a 1 all’Inghilterra, per quel passaggio filtrante pensato e per fortuna mai realizzato.

Già nell’inverno argentino del 2012, complice un rapporto problematico col tecnico Falcioni, Riquelme aveva tentato l’addio al calcio giocato: sfumato il quarto trionfo in Libertadores e il sesto titolo in azuloro, probabilmente consapevole di non essere più quello di una volta, dava l’addio al Boca, un addio durato solo un semestre. Nel luglio 2014, dopo il sofferto divorzio - che la temibile curva del Boca mai perdonerà al presidente Angelici - passa in serie B, all’Argentinos Juniors, club che lo ha visto crescere con le scarpette indosso e che ora lo vedrà appenderle al chiodo, con il quale conquista la promozione nella massima divisione.

Nell’anno del ritorno in patria del “pagliaccio” Pablo Aimar, da sempre ammirato e ricambiato dal Mudo, il calcio argentino saluta dunque l’erede, per volere del destino, del numero 10 per definizione, quel Maradona che JRR non ebbe paura di affrontare a viso aperto al momento del suo arrivo alla guida dell’albiceleste: «io e Maradona non abbiamo gli stessi codici, la Selección è un capitolo chiuso per me», il suo commento alla vigilia delle eliminatorie per il mundial sudafricano.

Decine di saluti sono stati postati in queste ore sui social network dagli ex colleghi. Fra questi anche Zinedine Zidane, che non a caso ha ricordato di aver scambiato la maglia con JRR nella sua ultima partita da professionista, un rocambolesco Real Madrid-Villareal del 2006 terminato 3 a 3, inaugurato da un’incornata del francese e concluso con il classico destro riquelmiano dai trenta metri, al quale solo il palo destro di Iker Casillas seppe dire di no. «Nel mia squadra ideale Riquelme giocherebbe sempre» è stato il commento di Zizou, a cui hanno fatto eco gli altri mostri sacri del pallone degli ultimi anni, da Iniesta a Ronaldinho, da Henry a Messi.

Qualcuno si è già affrettato a farlo presidente del Boca entro la fine dell’anno e lui stesso, per il futuro, non ha chiuso la porta a questa eventualità. «Preferirei la poltrona alla panchina, non sono molto in sintonia con i ragazzi di oggi» ha poi spiegato, per la gioia dei nostalgici dei tempi andati. A noi, piace immaginarlo passeggiare mano nella mano con suo figlio per il Caminito de La Boca, col pallone sottobraccio in una fresca giornata primaverile, con quel suo sguardo eternamente malinconico, mentre perfino i suonatori di tango lo guardano impazienti ed impietriti, in attesa di una sua mossa, o chissà, di un sorriso.

Daniele Carpi e Paolo Galassi per Pangea News - America Latina Quotidiana
articolo pubblicato il 10/02/2015


Pangea News

10 giugno 2015

PURO FUTBOL: il calcio orrizzontale della Democrazia Corinthiana

In Brasile correvano i tempi della tirannia, ma anche i tempi in cui un filosofo poteva diventare un campione di calcio. Socrates e il suo Corinthians volevano rivoluzionare il mondo partendo dai campi di gioco e quando si resero conto che stavano scrivendo la storia, capirono che vincere o perdere non era poi così importante


Incapace di riprodurre una qualsiasi forma di autogestione, secondo molti opinionisti il calcio è un esempio classico di dittatura all’interno dello sport. I calciatori, che somigliano molto a un popolo, sono al servizio di un capo, l’allenatore, che decide con insindacabile intransigenza delle loro sorti. Al di sopra di essi il vigile presidente, col potere di licenziare per puro capriccio. Ma come accade con tutte le tenaci certezze, ci fu un momento in cui il calcio mutò la sua indole autoritaria e si trasformò in pura Democrazia. Accadde nella prima metà degli anni ’80 in Brasile, in un piccolo quartiere della periferia di San Paolo chiamato Bom Retiro, dove la buoncostume era di casa fra operai e braccianti. Qui, quegli stessi lavoratori immigrati che la sera dovevano guardarsi dalla polizia, fondarono dopo aver visto all’opera un team amatoriale inglese lo Sport Club Corinthians Paulista, per contrapporsi alle squadre elitarie del centro. Era il 1910.

Il giocatore che ha maggiormente incarnato lo spirito e i valori della squadra, eretto a simbolo eterno dai torcedores corinthiani, come si chiamano i tifosi del Timao, è senza dubbio Socrates. Chiamato così dal padre dopo aver letto La Repubblica di Platone, Socrates si iscrive alla facoltà di Medicina nel 1971. Contemporaneamente, la passione per la filosofia e le idee di libertà e uguaglianza crescevano in lui. Ma il dottore amava soprattutto le piccole squadre di futebol, nelle quali vedeva molte analogie con le prime organizzazioni sindacali inglesi e quando fu davanti alla fatidica scelta fra il calcio e la medicina, scelse il primo, con l’intento di rivoluzionare la società partendo dallo sport.

Gambe lunghe come un airone che gli valsero il soprannome di Magrão, agile come una gazzella e due piedi fin troppo piccoli per la sua altezza (che a malapena lo ancoravano a terra), Socrates era un centrocampista votato al palleggio e con una visione di gioco eccezionale, che gustava proiettarsi in avanti alla ricerca del gol ed armare i compagni con i suoi celebri colpi di tacco. Socrates non fu il miglior verdeoro di tutti i tempi, forse neppure il miglior giocatore corinthiano, ma di sicuro, come ricorda Pelè, è stato «il più intelligente giocatore brasiliano di sempre».

A distanza di anni le repressioni subite dalla popolazione povera brasiliana non si erano attenuate fra torture, esili politici e soppressione di ogni forma di dissenso, complice la dittatura militare che accompagnò il Paese nel ventennio ‘64-‘84. Una “dittablanda”, come amava chiamarla il generale cileno Pinochet nella macabra gara a chi mieteva più vittime, ma in prima fila con i suoi gorilas, così come vengono chiamati spregiativamente i conservatori in America Latina, nell’Operazione Condor che seminò il terrore in tutto il continente.

A volte però ci sono dei momenti in cui le persone giuste si trovano nel posto giusto, come un attaccante di razza su un cross in area di rigore. Tra il 1982 e il 1985, ultimi anni di dittatura, insieme a Socrates in quel Corinthians si ritrovarono due giocatori unici nel loro genere: il terzino sindacalista Wladimir e il centravanti ribelle Walter Casagrande (in Italia con le maglie di Ascoli e Torino). Furono loro tre i leader del quadriennio, insieme a Waldemar Pires Matheus, presidente centralizzatore ma tutto sommato buono, e Adilson Monteiro Alves, che di professione faceva il sociologo e che si ritrovò catapultato, senza alcuna esperienza, sulla panchina di una delle realtà sportive più importanti della storia. La conferenza per la presentazione dell’allenatore si trasformò in un’assemblea oceanica che durò sei ore: era l’inizio della Democrazia Corinthiana.

La Democrazia Corinthiana è un’utopia sociale ancor prima che calcistica, una delle più importanti forme di resistenza che osarono sfidare la dittatura brasiliana . L’idea che portava con sé questo «gruppo di persone che pensava diversamente» era semplice quanto rivoluzionario: dare libertà e far partecipare tutti alle decisioni del club. Da Socrates il fuoriclasse, al terzo portiere, da Adilson all’ultimo magazziniere, tutti avevano il diritto di esprimere la propria opinione, il leader come il gregario.

Si discuteva e si votava per qualsiasi cosa, nel pieno rispetto degli altri componenti e senza nessuna distinzione, tutti valevano uno e la maggioranza vinceva. Come quando si scelse di stampare il motto “Democracia Corinthiana” sulle magliette da gioco, dopo un dibattito all’Università cattolica di San Paolo al quale parteciparono Socrates e compagni; o quando i giocatori si presentarono in campo con lo striscione “Vincere o perdere, ma sempre con Democrazia”; o ancora quando esortarono il popolo a recarsi alle prime elezioni libere nel 1982. Il noi si era sostituito all’io.

L’obiettivo era di crescere sempre di più come squadra e di riflesso essere un esempio per tutta la società e con la caparbietà che contraddistingue i rivoluzionari, si ottenne. Veder giocare il Corinthians era come ascoltare della buona samba e infatti non era raro vedere i giocatori entrare in campo sulle note di Gilberto Gil. Vinse anche due campionati paulisti (’82 e ’83), un sogno per una squadra che non era abituata alle glorie e che doveva contendere città e rivalità con il San Paolo, lui sì il team abituato a vincere, arrogante e conservatore, vicino alla dittatura prima e al neo-liberismo poi.

Il club smise di essere marginale e divenne un simbolo di lotta e progresso. Intellettuali e artisti cominciarono a frequentare Socrates e compagni per il cambiamento che essi rappresentavano nel paese e per le idee che portavano avanti. Le vittorie oltrepassarono il significato puramente sportivo per abbracciare un valore storico. I giochi di potere per eliminare la parte progressista alle elezioni del Consiglio della società il 1° aprile 1985, giorno del 21° anniversario del golpe militare, rappresentarono la fine di quell’esperienza.

Socrates aveva già lasciato l’anno prima, con lui anche il ribelle Casagrande, e l’esempio di quella “ingenua Comune”, come quella parigina del 1871, si sgretolò. Magrão morì il 4 dicembre 2011 come predisse lui stesso: «Di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il campionato» e i tifosi, in festa, resero omaggio al dottore-filosofo col pugno chiuso rivolto al cielo. La Democrazia Corinthiana portò con sé per quattro anni il sogno di libertà di un’intera generazione, ma soprattutto la consapevolezza che, quando stai scrivendo la storia, essere campioni in fin dei conti è un dettaglio.

articolo pubblicato il 25/12/2014


Pangea News // Essere campioni è un dettaglio

16 aprile 2015

Eduardo Galeano e le vene ancora aperte

Eduardo Galeano è stato maestro sublime dell’arte del narrare e dello scrivere, è stato formatore di coscienze critiche, esportatore di dignità e tante altre cose insieme, come dimostrano i messaggi di cordoglio che tutto il mondo sta riservando allo scrittore uruguaiano scomparso lunedì scorso.



Per mille ragioni don Eduardo ha appassionato queste persone, che hanno sempre trovano nelle sue pagine di critica feroce al colonialismo prima e al neo-liberismo poi – secondo lo scrittore semplicemente due distinti sostantivi che celano la stessa parola: sfruttamento – una chiave di lettura per comprendere al meglio il passato e l’attualità. Dai movimenti zapatisti ai governi bolivariani, tutta la sinistra latinoamericana si stringe attorno alla sua imponente figura, che aveva fisicamente in vita e che avrà intellettualmente per l’eternità.

Così come loro, anch’io sono stato folgorato dalla sua scrittura e da ciò che egli scriveva. Nel personalissimo pantheon riservato a chi ha influenzato i miei primi trent’anni di vita, Eduardo Galeano occupa un posto di assoluto rilievo. Mi ha insegnato che il sottosviluppo dei popoli latinoamericani, così come quello di tutti i popoli, è una conseguenza dello sviluppo altrui; che il saccheggio di una terra dalle infinite ricchezze e bellezze non si è arrestato ed anzi continua sotto forma di liberi mercati e firme su contratti miliardari. Mi ha insegnato a dare dignità ai popoli oppressi con il suo Le vene aperte dell’America Latina, che mi aprì la mente. Mi ha insegnato il valore sociale del fútbol in Splendori e miserie del gioco del calcio e che la stessa sorte che è toccata ai popoli, schiacciati dal significato materiale e immateriale del denaro e dalla corsa allo sviluppo a tutti i costi, è toccata anche allo sport più popolare. Ma mi ha anche insegnato che se si guarda bene a fondo, una qualche forma di resistenza alla modernità statuaria, vincente nel breve e per questo assai banale la si può trovare.

È sempre stato così presente ed importante in questi ultimi anni di formazione che volli inserire una sua citazione di critica al sistema neo-liberista anche nella mia Tesi di Laurea, forzando un po’ la mano. Ma necessariamente.

Sono sempre stato convinto che, in un parallelismo ardito e pericoloso, Galeano fosse culturalmente e criticamente per l’America Latina quello che Pasolini fu per l’Italia.

Come tutte le grandi personalità che ci lasciano dobbiamo essere felici anche nel momento di tristezza, non per quello che non potrà più insegnarci, ma per quello che già ci ha insegnato, per il suo lascito, per l’eredità che ora sta a noi portare avanti e alla quale continuare a dare un significato.

¡Adiós Maestro! ¡Hasta siempre Galeano!


Gianni Minà // Gennaro Carotenuto //  TeleSur

03 marzo 2015

America Latina: povertà e indigenza stabili nel 2014

Nel 2014 in America Latina i poveri sono stimati nell’ordine dei 167 milioni, 71 dei quali vivono in condizioni di povertà estrema o indigenza. Questo è il dato ufficiale comunicato dalla CEPAL, la Comisión Economica para América Latina y el Caribe, organo delle Nazioni Unite, nel documento Panorama Social de América Latina 2014 pubblicato lo scorso 26 gennaio.

© CEPAL, América Latina: evolución de la pobreza y de la indigencia, 1980-2014


Nello studio si legge che negli ultimi due anni la situazione non è migliorata, ma nemmeno peggiorata ed il dato della povertà nel subcontinente si assesta ancora al 28% della popolazione. La decelerazione della crescita economica latinoamericana ha fatto da freno ad una riduzione che durava ormai da molti anni e viaggiava a tassi elevati: solo venticinque anni fa i poveri erano 204 milioni, corrispondenti a quasi la metà della popolazione (48,4%).

Questa frenata, unita all’aumento della popolazione, si traduce in un incremento in valori assoluti sia dei poveri che degli indigenti di due milioni ciascuno: i primi sono passati da 165 a 167 rispetto all’anno precedente, i secondi da 69 a 71 raggiungendo il 12% della popolazione totale.

Il documento, che riassume un arco temporale di circa dieci anni, fornisce inoltre i dati riguardanti i singoli Paesi. Rispetto al periodo a cavallo del 2005, i trend migliori sono stati fatti segnare dall’Argentina, che ha diminuito la povertà di oltre 20 punti percentuali, passando da dal 24,8 al 4,3%; dato confermato anche per l’indigenza. Numeri elevatissimi anche per l’Uruguay che, sebbene facesse già registrare uno dei dati originari più bassi, ha saputo diminuire il numero dei poveri del 13% (da 18,8 a 5,7%). Anche Perù (-28,6%, da 52,5 a 23,9%), Brasile (-18,4%, da 36,4 a 18%) e Bolivia (-27,6%, da 63,9 a 36,3%) nell’ultimo decennio hanno viaggiato a ritmi decisamente alti.

Fra i 12 Paesi i cui dati sono disponibili per il 2013 (per Argentina, Bolivia e Messico non si conoscono) occorre segnalare la performance del Cile, che in un solo anno ha ridotto la povertà di 3 punti percentuali, e del Paraguay che fa segnare un ingente -8,9% , anche se rimane uno dei paesi col tasso più elevato. In Colombia la popolazione povera registrata nel 2013 si attesta al 30,7%, con una riduzione del 2,2%.

Un discorso a parte lo meritano sicuramente Messico e Venezuela. Il paese centroamericano è l’unico che a livello regionale fa segnare un trend diametralmente opposto: dal 2006 al 2012 infatti è stato registrato l’aumento sia dei poveri (+5,4%) che degli indigenti (+5,5%), passati rispettivamente al 37,1% e al 14,2% che, se si considerando i 118 milioni di abitanti (stime del governo messicano), equivale a dire circa 44 milioni di poveri e 17 milioni di indigenti, in aumento di oltre 6 milioni in soli nove anni.

Il caso del Venezuela invece è estremamente peculiare. Nonostante gli organismi che hanno attuato le rilevazioni nel 2005 e nel biennio 2012-2013 siano diversi, quindi i dati difficilmente comparabili, si nota una diminuzione di entrambi i valori, ma il trend nel corso del 2013 è in netta controtendenza. La percentuale di poveri registrata per quest’anno dall’Istituto Nazionale di Statistica venezuelano è infatti del 32,1%, in aumento di 6,7 punti percentuali rispetto al precedente; stesso discorso per il numero degli indigenti, che si attesta al 9,8% (+2,7%).

Al di là dei dati che fanno segnare i singoli Paesi, che dovrebbero essere analizzati in modo specifico data l’estrema eterogeneità delle singole realtà nel contesto latinoamericano, è il trend di stabilizzazione generale che occorre tenere maggiormente in considerazione.

Seppur ancora non preoccupante esso merita di sicuro una profonda riflessione, come conferma il Segretario Esecutivo della CEPAL: «la ripresa dalla crisi finanziaria internazionale non sembra aver generato sufficienti vantaggi per rinforzare le politiche di protezione sociale» ha dichiarato a margine della presentazione Alicia Bárcena, aggiungendo che «oggi, nello scenario di una possibile riduzione delle risorse finanziarie disponibili, sono necessari più sforzi per fortificare queste politiche, stabilendo solide fondamenta allo scopo di adempiere agli impegni dell’agenda di sviluppo post-2015».

Tanto è stato fatto in quest’ultimo decennio e, dati alla mano, tanti sono anche i meriti di chi ha posto in cima alle agende politiche le problematiche relative ai poveri. La sfida più difficile però comincia adesso ed è confermare queste politiche, prevedendo un processo inclusivo che permetta a queste persone non solamente di uscire dalla povertà, ma di non ritornarci. L’obiettivo rimane sempre quello: eradicare le cause che generano indigenza e per questo l’asticella finisce inevitabilmente per alzarsi.


CEPAL //  Panorama Social de América Latina 2014

19 gennaio 2015

Uruguay: la volta che la guerriglia occupò la Copa Libertadores

Il più grande radiocronista di sempre, la sua voce roca e la poesia del calcio che il popolo adora. Un gruppo di guerriglieri disposto a tutto per fare la rivoluzione e il Nacional de Montevideo, la squadra più seguita in assoluto, che si prepara a giocare la finale della Copa Libertadores. E così la telecronaca si interrompe e inizia l’inno dei tupamaros



Dall’inizio dell’Ottocento, quando conquistò la sua indipendenza, e poi di seguito negli anni avvenire, l’Uruguay è sempre stato considerato un semplice puntino sulla sterminata mappa dell’effervescenza latinoamericana, piccolo e tradizionalmente democratico, dove il più delle volte non accadeva nulla. Un motivo di fama mondiale, però, questa nazione trascurata l’ha sempre avuto: il suo calcio e i suoi mitici calciatori.

La passione per il futbol nella República Oriental esplose nel 1930, anno del primo Campionato Mondiale di Calcio, che la Celeste vinse in casa. Oltre alla nazionale, anche i club del suo campionato comunque, dominavano nel continente, specie nella decade del ’60, con il Peñarol che fu capace di vincere tre Coppe Libertadores ed arrivare due volte secondo nei primi sei anni della competizione. Lo stesso Eduardo Galeano, nel suo “Splendori e miserie del gioco del calcio” ammetteva: «Come tutti gli uruguagi, anch’io avrei voluto essere un calciatore».

Tuttavia, le gesta leggendarie di queste squadre sarebbero rimaste solo gesta senza leggenda, se non fosse stato per il grande mezzo di comunicazione dell’epoca: la radio, che le portava all’orecchio degli appassionati, e per la voce che le narrava e che tutto il popolo adorava, quella di Carlos Solé. Lo storico radiocronista uruguaiano fu secondo alcuni il più grande di sempre, tanto da essere accostato a voci internazionali come Frank Sinatra e il compositore di tango Carlos Gardel. Solé debuttò in radiocronaca nel 1935 a diciotto anni, commentando la partita fra Club Atletico Bella Vista, di cui era segretamente tifoso, e River Plate di Montevideo.

Don Carlos diventò famoso grazie al suo tono rauco e grave, che schiariva di continuo con dei leggeri colpi di tosse, frutto dei sigari e di un certo gusto per il whisky, che qualsiasi cronista tentò invano di imitare. Con quella voce metallica e terribilmente sonora, Solé fu il più trascinante commentatore uruguaiano della storia della radio, riuscendo a creare un proprio stile di cronaca infarcito di metafore per raccontare i momenti più avvincenti, come in Ungheria-Uruguay del Mondiale ‘54, quando raccontò il pareggio in rimonta dei sudamericani (che poi persero per 3 a 2) dicendo, subito dopo il gol del due a due: «Il leone sconfitto agita la sua criniera!».

Quattro anni prima, Solé fu il telecronista della storica finale fra Brasile e Uruguay, a tutti nota come Maracanazo. Fu lui ad urlare alla nazione incredula: «Ghiggia se le escapa a Bigode. Avanza el veloz puntero derecho uruguayo. Va a tirar. Tira. Goool, goool, goooool, goooooool uruguayo», mentre tutt’attorno, fin dove arrivava la radio, scoppiavano i pianti, si stringevano gli abbracci e si saltava sulle pancacce dei bar.

La cabina di commento nelle canchas uruguaiane era un teatro dove Solé metteva in scena le sue performance. La passione nel commentare la partita esplodeva fra quelle mura anguste dove il silenzio altrui era sacro, anche quando il suo incedere continuo gli provocava uno sforzo fisico notevole, al punto di terminare le trasmissioni completamente sudato: quando la temperatura in cabina aumentava, Solé si calava i pantaloni alle caviglie, si toglieva la camicia e a torso nudo continuava in questa posa da sauna fino al novantesimo.

Intanto, a metà degli anni ’60, le proteste per la situazione divenuta insostenibile invasero le strade uruguaiane con la nascita del Movimento de Liberación Nacional, meglio noto come Tupamaros, un movimento di guerriglia di estrema sinistra che faceva dell’azione, forse più che delle idee, il suo momento determinante. Le strade della protesta sociale e di Carlos Solé si incrociarono il 15 maggio 1969 quando allo stadio Gran Parque Central si disputò la finale di andata della Coppa Libertadores fra Nacional de Montevideo e gli argentini dell’Estudiantes de La Plata. Il paese intero aspetta la partita, lo stadio è traboccante e chi è rimasto fuori si stringe alle radioline che trasmettono le parole di Solé.

Ma c’è un gruppo di tupamaros che ha pensato di trasformare l’evento in un momento di propaganda politica con un’azione eclatante e così verso la fine del primo tempo, fa irruzione nella stazione radiofonica da cui trasmette Radio Sarandì e trova, seppur a fatica, la linea di diffusione. In breve tempo fuoriescono le note del “Cielito de los Tupamaros”, canto contadino divenuto manifesto dei guerriglieri. Gli apparecchi sintonizzati smisero di trasmettere le parole di Carlos Solé, che dalla sua postazione andò su tutte le furie, e mandarono un messaggio d’appoggio al 1° maggio e un appello alla lotta armata. La gente incredula, anche sulle gradinate, alzò il volume delle radio per ascoltare le parole di quei guerriglieri per tutto il secondo tempo.

Pochi giorni dopo, lo stesso gruppo recapitò una lettera di scuse a Carlos Solé con la quale spiegarono i motivi del sabotaggio: Radio Sarandí innanzitutto trasmetteva in tutto il paese e l’occasione di un avvenimento seguito coma la finale di Coppa Libertadores era impossibile da farsi sfuggire. La cassa di risonanza data dalla radiocronaca di Solé, poi, era semplicemente enorme: i tupamaros gli riconobbero di essere la persona più ascoltata dal popolo.

Il figlio del radiocronista, imprigionato durate la dittatura di inizio anni ’70, fu segnalato come uno degli artefici dell’azione, anche se lui stesso ha sempre negato il coinvolgimento, sostenendo di essersi aggregato ai guerriglieri più tardi. Con questa azione i tupamaros dimostrarono il ruolo centrale che ancora rivestiva la radio, uno strumento di propaganda efficacissimo e diretto, e in particolar modo la funzione del calcio che, non solo in Uruguay ma in tutta l’America Latina, non ha mai smesso di essere un potente catalizzatore sociale.

Il Nacional perse sia quella partita che la finale di ritorno, vedendosi negata la gioia del primo trionfo in Libertadores, ma all’uscita dello stadio c’è chi giura di aver esultato, non per un gol, ma per la vittoria della guerriglia tupamara.

articolo pubblicato il 28/10/2014


Pangea News

30 dicembre 2014

David Foster Wallace - Questa è l'acqua

Questa è l’acqua è la prima pubblicazione postuma di David Foster Wallace dopo la sua tragica scomparsa nel 2008. Sulla scorta delle sue raccolte di racconti come Considera l’aragosta, Oblio ma soprattutto Brevi interviste con uomini schifosi, con la quale questa condivide un certo spirito per le sensazioni dei personaggi, una sopraffazione come se esistesse un qualche disegno messo a punto per ognuno di essi, con l’intento beffardo di renderli drammaticamente veri. Sono sei racconti eterogenei.
Si comincia col grottesco Solomon Silverfish, avvocato alle prese con un rapporto travagliato e confuso con la moglie malata terminale, nel quale la compassione e l’empatia per una situazione dolorosa diventa una convivenza conflittuale e a tratti persino comica non solo con la moglie ma con Solomon stesso.
Il paradossale Altra matematica racconta di un nipote innamorato del nonno e di un tizio innamorato di un cadavere in quella che ha tutta l’aria di essere una lunga equazione algebrica senza possibili soluzioni.
C’è Crollo del ’69, una digressione spassosa su Karrier, personaggio che riesce sempre a predire il contrario di ciò che si avvera; c’è Ordine e fluttuazione a Northampton nel quale Wallace narra in un’anarchica sequenza di vicende ed emozioni il triangolo disturbato e quasi bucolico fra il protagonista Barry Dingle, Myrnaloy Trask e Don Megala, attraverso il quale indaga in maniera quasi filosofica gli ingranaggi emozionali di un giovane fra, appunto, il suo ordine mentale e la sua fluttuazione romantica. Questa ambivalenza fra ragione e sentimento (in questo Dingle somiglia tantissimo a Wallace) viene riassunta in poche semplici righe: «un romanticismo classico, quasi classicamente statico, quale fondamento, elemento primario, requisito indispensabile dell’esperienza stessa di essere B. Dingle».
Il brano per il quale è conosciuta questa raccolta, e il fatto che ne dia il titolo è solo una delle tante conferme, è appunto Questa è l’acqua, la trascrizione del discorso per il conferimento delle lauree pronunciato dallo scrittore agli studenti del Kenyon College nel maggio del 2005. Come da lui stesso affermato, questa “roba” non è «divertente, leggera o altamente ispirata come forse dovrebbe essere […, ma] è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche». Il siparietto dei pesci, oggi ricordato ed utilizzato da più parti, è solamente un pretesto contestuale per introdurre ed approfondire un discorso ben più ampio. Wallace raccomanda, quasi da fratello maggiore come se il discorso fosse rivolto anche a sé stesso, che la vita è difficile e specialmente scegliere di viverla in modo consapevole. La realtà è estremamente complessa ed articolata e operare tutte quelle piccole scelte quotidiane è un lavoro culturale enorme che richiede grande sacrificio fisico e mentale: «Imparare a pensare di fatto significa imparare a esercitare un controllo su come e cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza». La cultura come il lavoro di una vita, dove i titoli di studio nulla possono, ma può la persona.
Aldilà di questo assai significativo brano, l’apice della raccolta dal mio punto di vista si raggiunge con Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta (curiosamente il primo testo mai pubblicato da Wallace) e questo mi provoca un certo sconforto se si pensa che il tema centrale del racconto è la depressione, narrata per di più in prima persona – e chi conosce la storia e l’epilogo del David uomo non può che rimanerne turbato, ma d’altronde questo tema sarà ricorrente in tutta la produzione futura. Qui si guarda alla malattia come ad un pianeta a galassie di distanza, come ad un compagno di viaggio triste e crudo, che non ti permette divagazioni sul tema nemmeno quando, davanti ad una ragazza carina che sfodera «un grosso sorriso di una bellezza mortale» e che ti chiede il perché di quella cicatrice, tu non puoi fare altro che ammettere: «avevo una fastidiosa etichetta sulla guancia».


«Mi dispiaceva in modo incredibile per lui, e naturalmente la Cosa Brutta è stata così gentile da filtrare quella tristezza e da peggiorarla un casino. Era strano e irrazionale ma tutt’a un tratto ho sentito fortissimamente che l’autista ero davvero io. Mi sentivo davvero così. Perciò mi sentivo come doveva sentirsi lui, ed era orribile. Non solo mi dispiaceva per lui, mi dispiaceva come lui, o cose simili. Tutto grazie alla Cosa Brutta.»

«Pensala in questi termini, Dingle, dice l’amore di Dingle mentre Dingle fa l’inventario delle tisane un pomeriggio di maggio del 1983. Pensa al tuo amore come a una creatura per natura incompleta, che persegue qualcosa. Io sono nato dentro di te come mezzo amore. Il mio fine è l’unità che mi è negata per definizione.»

«La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto più di quello che sembra”. Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia… adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.»

08 dicembre 2014

Blaxploitation: terra di confine tra cinema, musica e politica

La recente riscoperta dei b-movie, dai poliziotteschi italiani alla commedia sexy, ha riportato alla luce una serie di film che durante gli anni Settanta fece epoca negli Stati Uniti agitati dalle rivolte razziali, contribuendo a cambiare per sempre non solo il modo di pensare la cinematografia, ma anche l’intera società. Questa è la storia della Blaxploitation, terra di confine fra cinema, musica e politica.

http://www.nientepopcorn.it/blaxploitation-cinema-musica-politica/
© Questa Sera Niente Popcorn

Approfondimento curato con e per il social network cinematografico Questa Sera Niente Popcorn


QSNP // Blaxploitation Pride // Can you dig it? The Music and Politics of Black Action Films 1968-75

18 novembre 2014

Playing Love


Novecento plays for love
La leggenda del pianista sull'oceano, Giuseppe Tornatore (Italia, 1998)


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06 novembre 2014

Pino Cacucci - In ogni caso nessun rimorso

Mi capita raramente di leggere un romanzo, e leggerlo con piena soddisfazione è cosa rara, ma questa è una di quelle volte. Ho amato ed amo tuttora Pino Cacucci per le sue storie dall'America Latina, per il suo modo di raccontarla come non riesce a nessun altro narratore, per il suo stare dalla parte degli ultimi.
Questo romanzo potrebbe apparentemente sembrare quanto di più lontano dai canoni dello scrittore bolognese ci possa essere. Narra infatti la storia, con una estrema perizia documentaria, di Jules Bonnot, operaio francese votato all'anarchia per aver sperimentato sulla sua pelle la sopraffazione, l'essere carne da macello. Bonnot, appassionato di motori e grande esperto meccanico, tanto da diventare l'autista dell'inventore di Sherlock Holmes, fu il primo rapinatore ad utilizzate l'automobile per i suoi colpi strepitosi. Insieme ad una banda di anarchici individualisti seminò il terrore nella Francia di inizio secolo, consapevole che «milioni di esseri umani nascono poveri, ma sono pochi quelli che si consumano e contorcono per quel fuoco acceso da una sensibilità nefasta», e lui era uno di questi.
Ma Jules Bonnot non era solo un senza patria, un rifiuto per la società del tempo. Nel suo essere estremo portava con sé un romanticismo intenso, tipico di chi consegna la vita nelle mani di un'idea, che lo getterà fra le braccia della prostituta Nicolette che gli diede aiuto, della moglie Sohpie che non riuscì a cambiarlo, della bella Judith con la quale non passerà mai l'Oceano e perchè no anche del socio Platano e della sua fiaccola tatuata sul braccio (simbolismo anarchico).
Ma pensandoci bene anche questo romanzo in un certo modo non si discosta dai canoni "cacucciani", sebbene sia ambientato in un luogo completamente opposto dai paesaggi mozzafiato del Messico moderno o dalle strade polverose di San Isidro. Quello che rimane lo stesso però è la necessità di raccontare di povere genti sfruttate e disagiate, ma che mantengono intatta tutta la loro carica umana, che portano con sé valori veri ed intrinseci alla propria condizione. E questi valori sono uguali sia in Francia che in Messico.
Sono persone e sono luoghi che si potrebbero ritrovare oggi nelle banlieues parigine o nelle zone portuali di una qualsiasi città francese affacciata sull'Atlantico; così come in interi quartieri delle metropoli italiane o di una certa periferia tedesca, croata, inglese, latina, nordamericana. In tutto il mondo.
Come tutti gli utopisti, i rivoluzionari, i banditi, anche nelle ultime pagine della biografia di Jules Bonnot non c'è spazio per la redenzione. Nessuna pietà per chi dalla vita chiedeva solamente un pasto caldo, un po' di felicità e magari un amore vero. Una vita con dei rimpianti, forse sì, ma in ogni caso nessun rimorso.



«Non era solo per i soldi, ma soprattutto per la soddisfazione di fregare chi si ingrassava e scialacquava denaro sfruttando i suoi simili.»

«Ma è la mia sensibilità che mi farà vivere sempre e comunque contro una società che ha bisogno dei poliziotti per conservare il potere. Anche a dispetto dell'intelligenza, commissario. A dispetto di tutto e di tutti. Se il mio destino è di restare eternamente un eretico... tanto peggio. Vorrà dire che morirò senza rimpianti, con tutti i miei dubbi, ma con una sola certezza: di non essere mai stato complice dell'orrore, del sopruso, degli oppressori d'ogni sorta, qualunque sia il colore e l'ideologia che li anima.»

«Prima di mettersi in marcia verso la stazione, Jules rimase a fissare le onde che si infrangevano sul bagnasciuga con un fragore assordante. Solo in quel momento, pensò a Judith: l'appuntamento a Le Havre, la nave per l'Argentina, il lungo viaggio, l'odore della sua pelle, la luce negli occhi quell'ultima volta che l'aveva stretta fra le braccia...»

30 ottobre 2014

Headin' for nowhere


Where you headin'?
Nowhere special
Come on, I'll take you there
Harley Davidson and the Marlboro Man, Simon Wincer (Usa, 1991)


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