Lungi da me quindi elogiare o denigrare il lavoro di Paolo Villaggio, non è certo mio compito. E, a dir la verità, lui stesso esordendo nella premessa dice così: «Io non so scrivere in italiano», sintomo che non esistono fini educativi. Racconti brevissimi, scritti come li scriverebbe un ragazzino, con la sola differenza che lui conosceva la morale neanche troppo celata che sta alla base di questi frammenti di quotidianità. Nessun fronzolo, nessuna pretesa. L'italiano medio alle prese con le sue sventure e le sue povertà morali, con lo schiavismo e il duopolio televisione-posto fisso senza nulla per cui vivere realmente, se non la propria sopravvivenza e forse la gita fuori porta della domenica. In pratica tutto ciò che uccide un uomo.
Fantozzi - l'antimito per definizione - lo conosciamo tutti, non c'è nient'altro da aggiungere. Tutto quello che c'era da dire è già stato detto, o visto.
«Lui corse verso camera sua e chiuse con violenza la porta sul dito che si era maciullato in macchina. Non urlò neppure, ma pare (e questo è solo un pettegolezzo livello portineria) che abbia pianto in silenzio con grande dignità.»
«Decise di prendere le dodicimila lire della palestra-pizzeria e si rassegnò a invecchiare come tutti quelli che non hanno i soldi di Agnelli.»
«"Arbitro... non dico chi è tua madre, ma so che professione faceva in realtà... è meglio che lo sappia anche tu, figlio di un cane, perchè ormai sei maggiorenne... arbitro mi fai schifo... vieni qui ché ri spacco la faccia..." Erano tutte offese rivolte ovviamente al capufficio, ai colleghi e a tutti quelli che durante la settimana lo umiliavano da sempre.»
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