América Latina, Fútbol, Rock'n'Roll

18 gennaio 2013

David Foster Wallace - Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado

Settima fatica personale. Dopo aver alternato fra le letture di Wallace - inconsapevolmente - racconti o romanzi, torno al primo amore: i saggi brevi che sono, per la mia personalissima visione, il modo migliore e forse più verosimile per affrontare la bibliografia dell'autore nonché il suo modo di espressione più riuscito - de gustibus.
Se così si può dire, Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado e altre cose divertenti che non farò mai più può essere definita come un vero e proprio compendio delle classiche tematiche affrontate da Wallace in tutta la sua produzione, quasi un addendum - e proprio per questo motivo non mi sentirei di consigliarlo come prima lettura, perchè potrebbe tranquillamente essere definito un'appendice, un riassunto di produzione (nonostante porti data 1997).
Il tennis innanzitutto, come scelta di vita e poco importa se sia lui stesso il centro del saggio oppure gli Open canadesi ed un semi-sconosciuto Michael Joyce. A suo modo però: nessun altro potrebbe studiare gli effetti di un tornado, la trigonometria mentre risponde ad un topspin del suo avversario diretto verso l'angolo. Scelta di vita che, se volgiamo, ha molto a che fare con la solitudine, che già si potrebbe desumere dalle parole-chiave del titolo dell'ultimo saggio: scelta, libertà, limiti, gioia, assurdità, completezza.
Ripensandoci, solitudine è la parola più adatta per descrivere ciò che l'autore ci vuole qui comunicare. La sua solitudine come detto di tennista dilettante che senz'altro si rivede nel professionista, ma anche la solitudine tipicamente americana nel racconto E Unibus Pluram nel quale affronta uno dei suoi temi caldi: il rapporto fra letteratura e televisione attraverso il quale ci ridà un'immagine della realtà americana allucinante nella sua verità.
Solitudine che si trasforma in inquietitudine quando si appresta a raccontare il dietro le quinte sul set di Strade Perdute di David Lynch - il cui solo nome probabilmente basterebbe ad inquietare anche la più docile delle creature. Un racconto-saggio a metà strada fra il metacinema, il reportage giornalistico e la tesi di laurea sulla sua produzione senza mai avvicinarsi però al regista: «com'è davvero David Lynch - Non ne ho la più pallida idea.» - cosa che mette, appunto, un'angoscia almeno pari ai suoi film.
Questa libro inoltre l'ho trovato, passatemi l'espressione, più realistico rispetto agli altri. Rimanendo sempre nell'ambito dell'ultra-realismo wallaciano con tutta probabilità ciò non ha alcun senso, ma la sensazione a fine lettura è quello di aver letto un diario personale, di aver scandagliato l'animo dell'autore. Perfino l'ironia prorompente di tutti i suoi lavori qui mi è sembrata lasciar più spazio del solito ad una - forse nauseata - arrendevolezza alle calamità contemporanee: «E state attenti: l'ironia ci tiranneggia.» Non le sue, sia chiaro, quelle degli Stati Uniti che però lo intaccano necessariamente da vicino, lo penetrano e, sapendo come è andata a finire, forse addirittura lo vincono.


«Le persone sole tendono invece a restare sole perchè rifiutano di sostenere i costi psicologici richiesti dal vivere in mezzo agli altri esseri umani. Sono allergici alle persone. Le persone hanno su di loro effetti troppo profondi.»

«Perchè i veri ribelli, per quanto ne so, sono pronti alla disapprovazione. I vecchi rivoltosi postmoderni rischiavano "Ooh!" scandalizzati e gridolini d'orrore: shock, disgusto, indignazione, censura, accuse di comunismo, anarchismo, nichilismo. Oggi i rischi sono diversi. I nuovi ribelli potrebbero essere artisti pronti a rischiare lo sbadiglio, gli occhi al cielo, il sorriso di sufficienza, le strizzatine d'occhio, la parodia dei fini umoristi, i "Dio mio quant'è banale.»

«Alcune delle sedicenni sono già laggiù sotto il canestro che fanno piccole piroette e spaccate di riscaldamento, e mi turbano al punto di desiderare di avere a portata di mano e bene in vista una bella copia del Codice Penale.»

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