América Latina, Fútbol, Rock'n'Roll

03 luglio 2012

Il racconto di Natale di Auggie Wren

 
Smoke, Wayne Wang (Usa, 1995)


Questa storia me l’ha raccontata Auggie Wren. Ma Auggie, dal momento che non ci fa bella figura -o non bella come vorrebbe- mi ha chiesto di non usare il suo vero nome. A parte questo, tutta la faccenda del portafoglio perduto, della nonna cieca e della cena di Natale è la stessa che mi ha raccontato lui. Auggie e io siamo grandi amici da undici anni. Lui lavora nella vecchia Brooklyn, in una tabaccheria di Court Street dove io vado spesso, perché è l’unica tabaccheria che ha i miei sigari preferiti. Per molto tempo non gli ho prestato molta attenzione: per me, Auggie Wren era l’omino dalla felpa blu col cappuccio, quello che mi vendeva i sigari e le riviste, l’irriverente e caustico tipetto che aveva sempre la battuta pronta sul tempo, sui Mets e sui politici di Washington. Tutto finiva lì. Ma un giorno di molti anni fa, Auggie, sfogliando una rivista in negozio, s’è imbattuto nella recensione di un mio libro, e mi ha riconosciuto nella fotografia che accompagnava l’articolo. Da quel giorno, tra noi le cose sono cambiate: per Auggie non ero più un cliente qualunque, ero diventato un personaggio illustre. Molta gente mostra un’indifferenza totale per i libri e gli scrittori, ma Auggie si considera un artista e, una volta scoperto il segreto della mia identità, ha cominciato a trattarmi come un alleato, un confidente, un compagno d’armi. A dir la verità, io lo trovavo assai imbarazzante. Poi, com’era quasi inevitabile, un giorno mi ha chiesto se volevo vedere la sua collezione di fotografie. E me l’ha chiesto con tanto entusiasmo e con tanta gentilezza che non ho potuto fare a meno di accettare. Chissà cosa mi aspettavo, ma certo non quello che Auggie mi ha fatto vedere il giorno dopo. Dopo avermi portato in una piccola stanzetta senza finestre nel retro del negozio, Auggie ha aperto uno scatolone e ha tirato fuori dodici album identici di fotografie. Poi mi ha spiegato che quello era il lavoro di una vita. Non gli prendeva più di cinque minuti al giorno: ogni santo giorno degli ultimi dodici anni, Auggie s’era messo all’angolo fra Atlantic Avenue e Clinton Street alle sette in punto del mattino e aveva scattato una fotografia a colori della stessa scena. Ormai, la raccolta ammontava a più di quattromila fotografie. Ogni album era un anno, e tutte le fotografie erano ordinate in sequenza, dal Primo gennaio al trentuno dicembre. Sotto ciascuna istantanea, c’era scritta scrupolosamente la data. Mentre sfogliavo gli album esaminando le immagini, non sapevo cosa pensare. All’inizio, ho avuto l’impressione che fosse la cosa più strana e sorprendente che avessi mai visto. Tutte le fotografie erano uguali. Per me, quella raccolta era un mattone monotono e ripetitivo: la stessa strada e le stesse case all’infinito, un delirio implacabile e ridondante d’immagini. Non sapendo cosa dire, continuavo a voltare le pagine annuendo con la testa per fingere un certo gradimento. Auggie, imperturbabile, mi guardava con un largo sorriso, ma dopo alcuni minuti m’ha interrotto dicendo: – Vai troppo svelto. Se non rallenti non riuscirai mai a capire. Naturalmente, aveva ragione. Se non ci diamo il tempo di osservare, non riusciamo a vedere nulla. Allora ho preso un altro album e mi sono sforzato di stare più attento ai dettagli, di notare i cambiamenti del tempo, di osservare la diversa angolazione della luce col passare delle stagioni. Infine, sono persino riuscito a cogliere le variazioni del traffico e a prevedere la sequenza dei giorni (il trambusto dei giorni lavorativi, la relativa immobilità dei giorni festivi, il contrasto tra il sabato e la domenica). Poi, a poco a poco, ho cominciato a riconoscere la gente che si vedeva in secondo piano, i passanti che andavano al lavoro, le stesse persone immortalate nello stesso posto dall’istantanea quotidiana di Auggie. Dopo aver imparato a riconoscere le persone, mi sono messo a studiarne il portamento, il modo di camminare nei diversi giorni, e a cercar di dedurre da quegli indizi superficiali di che umore erano, quasi potessi immaginare la loro vita e penetrare l’invisibile dramma murato nel loro corpo. Quando ho preso un altro album, non ero più annoiato e perplesso come all’inizio. Avevo capito che Auggie fotografava il tempo -sia il tempo naturale sia quello umano- e che lo faceva piazzandosi in un angolino del mondo con l’intenzione di farlo suo, montando di guardia nello spazio che si era scelto. Vedendomi assorto nell’osservazione del suo lavoro, Auggie ha continuato a sorridere compiaciuto. Poi, quasi mi avesse letto i pensieri, mi ha recitato un verso di Shakespeare. – Domani e domani e domani, – ha mormorato sottovoce, – il tempo scorre a piccoli passi -. A quel punto, ho capito che sapeva perfettamente quel che faceva. Tutto questo è successo più di duemila istantanee fa. Da quel giorno, Auggie e io abbiamo discusso più volte il suo lavoro, ma è soltanto la settimana scorsa che Auggie mi ha detto come si è procurato la macchina fotografica e come ha iniziato a fare fotografie. La storia che mi ha raccontato riguarda proprio questi argomenti, e io sto ancora cercando di coglierne il significato. All’inizio della settimana scorsa, un editor del New York Times mi ha telefonato chiedendomi se volevo scrivere una novella da pubblicare sul quotidiano di Natale. Il mio primo impulso è stato quello di rifiutare, ma siccome la persona era molto affabile e insistente, alla fine del colloquio gli ho detto che ci avrei provato. Ma quando ho attaccato il telefono m’è venuto il panico. Che ne sapevo di Natale? Che ne sapevo di novelle scritte su commissione? Nei giorni successivi, in preda alla disperazione, ho combattuto con i fantasmi di Dickens, di O. Henry e di altri maestri dello spirito di Natale. Il solo termine “novella di Natale” evocava in me spiacevoli associazioni, che mi facevano venire in mente insopportabili effusioni di sentimentalismo ipocrita e sdolcinato. Anche nel migliore dei casi, le novelle di Natale non erano altro che sogni dorati e illusori, fiabe per adulti. Mi venisse un colpo se mi mettevo a scrivere una cosa del genere! D’altra parte, com’era possibile proporsi di scrivere una novella di Natale priva di sentimento? Era una contraddizione in termini, un rebus irrisolvibile. Era come cercare d’immaginarsi un cavallo da corsa senza gambe o un passero senz’ali. Poiché non ero venuto a capo di nulla, giovedì sono uscito a fare una lunga passeggiata nella speranza che l’aria fresca mi chiarisse le idee, e poco dopo mezzogiorno sono andato in tabaccheria a far provvista di sigari. Come al solito, dietro il banco c’era Auggie; e quando lui mi ha chiesto come andava, io, senza volerlo, mi sono trovato a confessargli i miei guai. Dopo avermi ascoltato, Auggie ha detto: – Una novella di Natale? Tutto qui? Amico mio, se mi offri il pranzo ti racconto la migliore novella di Natale che tu abbia mai ascoltato. E ti garantisco che è vera, da cima a fondo. Allora, siamo andati alla fine dell’isolato, da Jack’s, un posticino affollato e chiassoso dove si mangiano ottimi panini al prosciutto e dove ci sono fotografie delle vecchie squadre dei Dodgers appese al muro. Ci siamo seduti a un tavolo della sala interna, abbiamo ordinato da mangiare, e a quel punto Auggie è partito in quarta. Ecco il suo racconto. Era l’estate del Settantadue. Un bel mattino, un giovanotto sui diciannove o vent’anni entra in negozio e si mette a rubare qua e là. Un ladruncolo più patetico di quello non s’era mai visto. Defilandosi accanto all’espositore dei giornali nell’angolo più distante, il ragazzo si riempiva di libri le tasche dell’impermeabile. In quel momento al banco c’era gente, e quindi non lo vedevo, ma appena l’ho individuato mi sono messo a gridare. Lui è fuggito come una lepre, e quando io sono riuscito a schizzare fuori dal banco era già arrivato in Atlantic Avenue. L’ho rincorso per mezzo isolato, ma poi ho smesso, perché ero scoppiato. E siccome al ragazzo in fuga era caduto qualcosa per terra, mi sono chinato a vedere cos’era. Era il suo portafogli. Non c’erano soldi, ma oltre alla patente c’erano tre o quattro fotografie. Avrei potuto chiamare la polizia e farlo arrestare -sulla patente c’erano nome e indirizzo-, ma non me la sono sentita. Era un povero teppistello, e quando ho guardato le fotografie non sono riuscito a incazzarmi. Si chiamava Robert Goodwin. Ricordo che in una foto aveva il braccio sulla spalla della madre o della nonna, in un’altra aveva nove o dieci anni, un gran sorriso in faccia ed era vestito da giocatore di baseball. Non me la sono proprio sentita. Probabilmente, ormai era drogato. Un miserabile ragazzotto di Brooklyn senza arte né parte… che me ne fregava in fondo di due tascabili da quattro soldi? Così, ho tenuto il portafogli. Ogni tanto mi veniva l’impulso di spedirglielo, ma poi rimandavo sempre e non mi decidevo mai. A un certo punto è arrivato Natale, e io mi sono trovato solo senza compagnia. Di solito il capo m’invitava a casa sua, ma quell’anno lui e la moglie erano andati dai parenti in Florida. Così, quella mattina, mentre ero seduto in casa un poco depresso, ho visto il portafogli di Robert Goodwin su un ripiano della cucina e mi sono detto: “Che diavolo, perché non fare una buona azione ogni tanto?”. Così, mi sono infilato il cappotto e sono partito per restituire il portafogli di persona. L’indirizzo era nel quartiere popolare di Boerum Hill. Quel giorno faceva un freddo cane. Ricordo d’essermi perduto più volte, prima di trovare la casa giusta. Da quelle parti sembra tutto uguale e si continua a girare in tondo nello stesso posto convinti di essere altrove. Insomma, alla fine arrivo all’appartamento che cerco e suono il campanello. Silenzio assoluto. Penso che non ci sia nessuno, ma riprovo per esser sicuro. Aspetto un altro po’, e mentre sto per andarmene sento arrivare qualcuno che strascica i piedi. – Chi è? -, chiede la voce di una vecchia. Io rispondo che sto cercando Robert Goodwin. – Sei tu, Robert? -, dice la vecchia. Poi sento sbloccare un dozzina di serrature e vedo aprirsi la porta. La vecchina ha perlomeno ottant’anni, forse novanta, e immediatamente mi accorgo che è cieca. – Sapevo che saresti venuto, Robert, sapevo che non avresti dimenticato nonna Ethel a Natale, – dice lei, e si fa avanti con le braccia aperte. Non c’era molto tempo per pensare, capisci, dovevo dire qualcosa alla svelta. Così, prima di rendermene conto, ho risposto: – Sì, nonna Ethel, sono venuto a trovarti perché è Natale -. Non chiedermi perché l’ho fatto, non ne ho la più pallida idea. Forse non volevo deluderla, non so. Mi è venuta così. Ed eccomi lì a ricambiare il suo abbraccio sulla porta. Non le ho detto che ero il nipote, non in maniera esplicita, perlomeno, ma era implicito. Però, non volevo imbrogliarla, era un gioco che entrambi avevamo deciso di giocare senza discutere le regole. Voglio dire, quella donna sapeva che io non ero il nipote. Era vecchia e svanita, ma non al punto da non accorgersi della differenza tra un estraneo e la carne della sua carne. Tuttavia, era felice di fingere, e siccome io non avevo niente di meglio da fare, ero contento di reggere la parte. Così, siamo entrati in casa e abbiamo passato la giornata insieme. Per inciso, l’appartamento era una topaia, ma che altro ci si poteva aspettare da una cieca che doveva fare le pulizie da sola? Ogni volta che mi chiedeva qualcosa sulla mia vita io le mentivo. Le dicevo che avevo trovato un buon lavoro in una tabaccheria e che stavo per sposarmi, le raccontavo varie storielle e lei faceva finta di credere a tutto. – Mi fa piacere, Robert, – diceva annuendo e sorridendo, – l’ho sempre detto che prima o poi le cose si sarebbero aggiustate… Insomma, dopo un po’ mi viene una gran fame, e poiché ho l’impressione che in casa non ci sia granché, vado al negozio più vicino e compro un sacco di roba: pollo allo spiedo, minestrone, insalata di patate, torta al cioccolato e così via. Ethel ha due bottiglie di vino tenute da parte in camera da letto, e così fra tutti e due riusciamo a mettere insieme una discreta cenetta di Natale. Ricordo che a forza di bere vino siamo diventati un po’ brilli: così, quando abbiamo finito di mangiare, siamo andati a metterci più comodi in salotto. Siccome mi scappava la pipì, ho chiesto scusa e sono andato al gabinetto. A quel punto, le cose hanno preso una piega completamente diversa. Era già abbastanza pazzesco fare la scena di essere il nipote di Ethel, ma quel che ho fatto dopo è stata una follia che non mi potrò mai perdonare. Appena sono entrato in gabinetto, ho visto sei o sette macchine fotografiche accatastate contro il muro accanto alla doccia. Erano macchine trentacinque millimetri nuove di zecca e di buona marca, ancora confezionate nella scatola. Ho immaginato che fossero di Robert, quello vero, e che fossero il bottino di un colpo recente. Non avevo mai scattato una fotografia in vita mia, né avevo mai rubato nulla, ma quando ho visto quelle macchine in bagno mi è venuto di prenderne una. Così, senza motivo. E senza pensarci due volte, ne ho presa una e sono tornato in salotto. Benché fossi stato in gabinetto pochi minuti, nonna Ethel s’era addormentata in poltrona. Troppo Chianti, probabilmente. Fatto sta che, mentre lei dorme di gusto come un bambino, io vado in cucina a lavare i piatti e poi, pensando che fosse inutile svegliarla, decido di tornare a casa. Non potendo nemmeno lasciarle un biglietto di addio perché è cieca, metto il portafogli del nipote sul tavolo, prendo la macchina fotografica e me la svigno alla chetichella. Fine della storia. - Non sei più tornato a trovarla? - Una volta, tre o quattro mesi dopo. Mi sentivo così turbato per il furto della macchina fotografica che non avevo il coraggio di usarla. Perciò, alla fine ho deciso di restituirla, ma nonna Ethel non abitava più là. Non so che fine abbia fatto. Al suo posto c’era un altro inquilino che non mi ha saputo dire dov’era. - Probabilmente era morta. - Sì, probabilmente. - Questo significa che aveva passato l’ultimo Natale con te. - Suppongo di sì. Non ci avevo mai pensato. - Hai fatto bene, Auggie, è stato un bel gesto verso quella vecchietta. - Le ho mentito e l’ho derubata. Non vedo come si possa chiamare una buona azione. - L’hai resa felice. E la macchina fotografica era comunque rubata: in realtà non apparteneva a chi l’hai presa. - Per l’arte tutto è lecito, eh, Paul? - Non la metterei così, però tu almeno hai fatto buon uso di quella macchina. - Ecco, adesso la novella di Natale ce l’hai, vero? - Sì, – ho risposto – penso di sì. Vedendo Auggie sorridere malizioso con una luce misteriosa e intimamente compiaciuta negli occhi, m’è sorto il dubbio che la storia fosse tutta inventata, ma al momento di chiedergli se mi avesse preso in giro ho capito che non me l’avrebbe mai detto. Era riuscito a farsi prendere sul serio, e quella era l’unica cosa che contava. Nessuna storia è falsa, finché una sola persona ci crede. - Sei grande, Auggie, – gli ho detto. – Grazie per l’aiuto, è stato prezioso. - Non c’è di che, – mi ha risposto lui continuando a guardarmi con quella strana luce folle negli occhi. – D’altra parte, se non potessi confessarti un segreto che amico saresti? - Ti devo un grande favore. - Figurati. Scrivila come te l’ho raccontata e non mi devi un bel niente. - Salvo il pranzo. - Certo, salvo il pranzo. Ricambiando il sorriso di Auggie con un sorriso, ho chiamato il cameriere e ho chiesto il conto.

Paul Auster, Il racconto di Natale di Auggie Wren, pubblicato sul New York Times del 25 dicembre 1990


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