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14 ottobre 2013

Argentina: società civile e 30 anni di Democrazia

Il 30 settembre scorso, presso la seicentesca sede della Fondazione Alma Mater di Bologna, si è svolta una improvvisa Lectio Magistralis tenuta dal dr. Horacio Ravenna, presidente dell’Assemblea Permanente per i Diritti Umani argentina, dal titolo “Il ruolo della società civile nella costruzione dei 30 anni di democrazia in Argentina”. Ospiti d’onore che accompagnavano l’oratore erano la scrittrice Daniela Padoan e il Ministro dell’Ambasciata argentina Carlos Cherniak.



E’ proprio l’ambasciatore, in un italiano impeccabile frutto di studi bolognesi, ad aprire l’incontro fornendo un excursus storico sul tema Desaparecidos e Dittatura Militare. Gli anni ’60, comincia, furono un periodo di profondo cambiamento globale, che l’America Latina colse attraverso politiche di inclusione sociale di quei settori di popolazione che prima erano esclusi. L’Argentina in particolare fu un laboratorio per i diritti umani, che però venne chiuso a doppia mandata il 24 marzo 1976 con l’inizio formale della Dittatura Militare. Un inizio solo formale tende a precisare Cherniak, quello sostanziale cominciò ben prima, con arresti e sparizioni ad opera delle forze anti-democratiche precedenti a quella data: “la Democrazia non comincia e non finisce in un solo giorno”.
Il tema dei Desaparecidos non è un tema solamente argentino, ma internazionale. La mancanza di solidarietà, almeno nei primi anni di dittatura, isolò il paese dalle cronache estere. Fu solamente quando questi crimini divennero ormai innegabili e numericamente impressionanti che l’opinione pubblica internazionale si concentrò su quello che stava accadendo in Argentina. Dei giorni che sconvolsero il paese, il Corriere della Sera non disse nulla e l’Ambasciata italiana a Buenos Aires, come si seppe dopo, era chiusa per chi chiedeva asilo politico, con l’eccezione dell’eroico “Schindler italiano” Enrico Calamai (la sua storia raccontata in questo libro) che accusò apertamente il governo italiano di connivenze col golpista Videla e la sua futura giunta. La rappresentanza diplomatica italiana descriveva la situazione come di “assoluta tranquillità” e sono ormai consolidate le tesi di un ruolo di Licio Gelli e della sua P2 nel golpe militare.
Tutto questo ed altro, sostiene Cherniak, dimostra che Videla e i Generali fecero il lavoro sporco e furono i responsabili materiali, ma il tessitore dei fili dietro le quinte (e aldilà delle frontiere) fu il potere economico internazionale, le istituzioni neo-liberiste con i loro tentacoli eversivi che necessitavano di strumenti di repressione per compiere il proprio progetto neo-liberista (non scordiamoci la lezione cilena).
La fine della Dittatura Militare coincide con la perdita di legittimità sia interna che esterna del regime. La repressione ormai si conosceva fuori dai confini e l’opinione pubblica internazionale si era costituita con l’idea dell’orrore dei desaparecidos. La crisi economica fece il resto e la tragica missione alle Malvinas fu solamente l’ultimo tentativo della giunta militare di riprendere credibilità fra la popolazione argentina.
La transizione democratica, conclude Cherniak, avvenne per default. Una transizione di rottura terminata con l’inattesa vittoria alle elezioni presidenziali del 1983 del radicale Raúl Alfonsín. Non fu quindi una transizione maturata mediante accordi come quella avvenuta in Cile, dove Pinochet ricevette l’immunità parlamentare, rimase il vertice militare e successivamente divenne senatore, ma una rottura totale (anche se a fasi alterne) per cancellare gli abusi, i soprusi e i crimini inumani compiuti in quegli anni e consegnare immediatamente alla giustizia i colpevoli di quelle tragedie. “Provate a pensare a Videla senatore!” esclama Cherniak con il viso che tradisce stupore per la sua stessa affermazione. Da quel momento in poi in Argentina si aprì il processo – giudiziario e storico – con il recente passato, senza mai dimenticare.

Horacio Ravenna prende la parola per proseguire la lezione dal punto di vista storico-giuridico. La Dittatura Militare, spiega il presidente dell’Assemblea Permanente per i Diritti Umani, lavorò sin dal principio per garantirsi l’impunità, rimarcando così che fin dagli esordi (ed addirittura prima, come ricordava Cherniak) i golpisti avevano in mente i costi umani che avrebbero avuto le loro azioni.
Innanzitutto la più bieca, la più vigliacca decisione fu proprio quella di utilizzare il metodo delle sparizioni. Questo metodo a-giuridico, che non prevedeva carceri, verbali scritti o tracce permetteva ai generali di evitare condanne a causa dell’assenza di prove fornite e, parallelamente, la possibilità di continuare a negare a livello internazionale il clima di terrore e i crimini che si stavano consumando in tutto il Paese.
Il secondo strumento messo in campo dalla giunta militare fu la legge di auto-amnistia (Ley 22.924) del 1983, attraverso la quale gli stessi militari si vollero tutelare nei confronti delle accuse che sarebbero state mosse di lì a poco all’interno dei tribunali rispetto ai crimini commessi. Una legge quindi fatta dai criminali che impediva di colpire i criminali stessi. La stessa Costituzione, aggiunge Ravenna, venne posta su un gradino inferiore rispetto alla Legge Militare, la quale assunse invece una valenza costituzionale se non addirittura sovracostituzionale: una maniera nuovamente a- giuridica per annullare de facto la Costituzione.
Passando poi in rassegna i governi che si sono succeduti, si focalizza sui meriti giuridici della presidenza Alfonsín. Innanzitutto il suo grande merito fu quello di aver dichiarato nulla la legge di auto-amnistia (Decreto 158/83), aprendo così le porte dei tribunali ai vertici militari. Inoltre, di vitale importanza, fu la creazione della Comisiòn Nacional sobre la Desapariciòn de Personas (Decreto 187/83) – meglio conosciuta come Commissione Nunca Más – il cui preziosissimo lavoro di ricostruzione dei fatti e degli orrori commessi durante il periodo dittatoriale servì come base per i processi dei decenni successivi, ma anche come grande opera sociale garantendo una risposta alle domande di verità e giustizia che richiedeva la società.
Davanti ai giudici si cominciarono quindi a presentare non solo i generali, ma anche gli altri militari responsabili, attivando in una sola estate più di 600 processi. Successivamente però, dietro pressioni provenienti dai nuovi vertici militari, Alfonsín promulgò due leggi a dir poco contraddittorie: la ley de la Obediencia Debida (Ley 23.521) che prevedeva la non punibilità dei militari che agivano in base ad ordini superiori; la ley del Punto Final (Ley 23.492) che prevedeva invece l’estinzione di azioni penali verso chi aveva commesso crimini politici fino al 10 dicembre 1983.
Alle elezioni del 1989 salì al potere Carlos Menem che, solamente un anno più tardi, decretò un indulto per i militari detenuti e per coloro che ancora erano processati, svuotando così le carceri argentine dai colpevoli e di fatto regalando la libertà ai vari Videla, Massera, Viola, Camps. Oltre a questo, Menem riesce anche a bloccare la cooperazione giudiziaria internazionale nei casi di crimini contro l’umanità, stoppando così i processi che si stavano contemporaneamente svolgendo all’estero (fra cui l’Italia con il caso ESMA).
Solamente con il governo di Néstor Kirchner si è intrapreso un cammino definitivo verso la giustizia. Il presidente, dal punto di vista legislativo, sancisce la nullità delle leggi sull’obbedienza dovuta e sull’estinzione di azioni penali promulgate da Alfonsín e soprattutto l’annullamento dell’amnistia prevista da Menem; non senza problemi dal punto di vista giuridico, in quanto queste azioni andavano ad inficiare gli effetti delle leggi in modo retroattivo.
Si apre così una stagione nuova nell’Argentina post-militare: la stagione dei processi e della giustizia che ha riportato nelle aule dei tribunali coloro che si sono macchiati di questi crimini disumani, insieme con una sintonia civile con le Madres e le Abuelas, che continua oggi con la presidenza della moglie Cristina Fernández.
Oggi Videla è morto, ricorda Ravenna, ma il processo verità autonomo a quello giudiziario, è vivo e continua la sua opera di recupero del ricordo e dell’identità sociale, culturale ed umana dei desaparecidos. Una ricostruzione della memoria al servizio del futuro della società argentina e mondiale.

Chiosa finale per la scrittrice Daniela Padoan (autrice di svariati libri sul tema di genere e sulla resistenza femminile ai regimi), che con incedere calmo ma risoluto fa notare ai presenti come la struttura di potere patriarcale in Argentina sia stata sovvertita dalle Madres e le Abuelas de Plaza de Mayo. Attraverso la loro continua opera di ricerca e ricordo esse non concedono ai militari la possibilità di aver ucciso o fatto scomparire davvero i loro mariti, figli e nipoti.
I desaparecidos sono parte integrante della società civile argentina, non esiste distinzione fra chi è sopravvissuto per raccontare e quelle due generazioni martoriate. Essi vivono nelle cronache, negli anniversari sui giornali, nelle sedi delle associazioni, nelle storie raccontate e tramandate a voce, nelle marce di queste eroine dell’amore ed in altri mille momenti, perché per finire questo tour dell'orrorenon ti basterebbero tutte le notti della tua vita”.


Nunca Más // Fondazione Alma Mater // APDH

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