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09 aprile 2010

Ossessione Salomé

Nietzsche impazzì di sofferenza, Hauptmann la invocò invano, Wedekind fu rifiutato, Rilke era folle d'amore. Solo Tolstoj riuscì a resistere al fascino di Lou Andreas, donna eternamente giovane, di intelligenza non comune, che voleva "diventare se stessa". Anche Freud nel carteggio che ora viene ripubblicato scrive "della sua superiorità su noi tutti"

Quando aveva vent’anni Lou Salomé, nata a Pietroburgo nel 1861, affascinava qualsiasi essere umano: Nietzsche, Paul Rée, scrupolosi professori, anziani teologi svizzeri, giovani studenti che le scrivevano lettere innamorate, anziane signore; incarnava in maniera diversa i sogni di ciascuno, come se fosse la proiezione di tutti coloro che la incontravano. Attraeva e respingeva. Se lo avesse desiderato, avrebbe incantato un gatto, una rosa o una pietra, che si sarebbero precipitati estatici ai suoi piedi. Quando diventò adulta, poeti, sociologi, orientalisti, psicologi, uomini politici, drammaturghi, giornalisti, economisti, medici illustri la corteggiarono disperatamente: quasi sempre invano. Ferdinand Tönnies la circuì, Gerhart Hauptmann la invocò, Franz Wedekind penetrò inutilmente nella sua stanza d’albergo, due uomini si uccisero per lei.
A vent’anni, Lou rinchiudeva il suo corpo alto e sottile in un abito scuro di taglio severo, abbottonato fino al collo, con una guarnizione di pizzo al collo e ai polsi. Gli occhi profondamente infossati guardavano senza paura lo spettacolo delle cose e degli uomini. Era infantile: si presentava a ciascuno come la figlia sognata o perduta, sulla quale ciascuno riversava il suo nascosto sentimento incestuoso. «Mia cara bambina », le dicevano tutti. Ma questa cara bambina credeva ciecamente in se stessa: aveva una disumana o sovrumana energia: una durezza da generale prussiano; un coraggio adamantino. Voleva «diventare se stessa», come le prescrivevano Nietzsche e Pindaro: dominare se stessa, dominare gli altri, dominare la vita — fino a quando la vita le offrisse come un dono ciò che lei desiderava con tanta forza. Capiva gli altri meglio di quanto gli altri si capissero; rapidissimamente diventava gli altri, assumeva i loro colori e le loro ombre — ombre dei pensieri di Rée, ombre delle scintillanti sentenze di Nietzsche nella Gaia scienza, o nella futura estasi di Così parlò Zarathustra. «Io vorrei essere stata — diceva — nella pelle di tutti gli uomini».
Nel marzo 1882, Paul Rée, un filosofo di qualche anno più giovane di Nietzsche, giunse a Roma. Era delicato, scrupoloso, femmineo, incerto: celava una grande bontà d’animo dietro una specie di odio verso se stesso; amava e venerava Nietzsche e voleva esserne riamato. Presto Paul Rée conobbe Lou; e la conduceva a passeggiare sotto il chiaro di luna, tra le rovine verso la via Appia, come nei libri di Chateaubriand, parlando appassionatamente di vita, di filosofia, di letteratura — e di Nietzsche, l’affascinante amico lontano. Verso la fine di aprile, giunse a Roma Nietzsche, stravolto ed ebbro di solitudine. Nessuno, forse, aveva sofferto la solitudine come lui in quegli anni. Era quasi cieco. Aveva continue emicranie. Abitava in camere ammobiliate e modeste pensioni. Ma la sosta non era mai lunga. Più oltre lo aspettava un’altra camera, un’altra città — Sorrento, poi Ragaz e Grindelwald e Sankt Moritz e Venezia e Stresa e Genova e Recoaro e Sils- Maria e ancora Genova e poi Messina, dove, unico passeggero, era arrivato a bordo di un veliero siciliano, con i suoi centoquattro chili di libri. Non c’era sosta. Non poteva esserci sosta.
Appena a Roma, Nietzsche sembrò lietissimo. Di colpo, con un gesto, si liberò dalla stretta e dalla protezione della solitudine: la sua conversazione era fresca, piacevole, spumeggiante e piena di bellissime invenzioni: un gioco con suole d’aria. Andò a San Pietro, dove Paul Rée scriveva il suo nuovo libro seduto in un confessionale pieno di luce. Vide Lou, e le disse solennemente, con parole goethiane: «Cadendo da quali stelle siamo stati spinti qui l’uno verso l’altra?» Pochi giorni dopo Nietzsche chiese a Rée di presentare a Lou la sua domanda di matrimonio.
Lou Salomé non aveva nessuna intenzione di sposarsi. Secondo le parole di Pindaro-Nietzsche, voleva «diventare chi era»: seguire coraggiosamente, spietatamente, crudelmente la propria strada, fino a cogliere tutti i doni che la vita, di nascosto, aveva preparato per lei. Ebbe un sogno notturno. Vide uno studio-biblioteca, pieno di libri e di fiori: vicino allo studio si aprivano tre stanze da letto, dove dormivano lei, Rée e Nietzsche. Era il sogno della Trinità, una contraffazione della Trinità cristiana. Fra i tre amici non dovevano correre rapporti erotici: soltanto letture e discussioni; ma l’eros, che Lou aveva represso, si irradiava attorno a lei e teneva incatenati a lei i due uomini che la amavano. Quando raccontò il suo progetto a una vecchia amica, questa la sgridò: «L’esperienza di una lunga vita e la conoscenza della natura umana mi dice che inevitabilmente, nel migliore dei casi, un cuore ne avrà orribilmente a soffrire e nel peggiore dei casi un vincolo d’amicizia ne verrà distrutto». Ma Nietzsche e Rée, i fratelli incauti, accettarono entusiasticamente il progetto della Trinità amorosa.
Pochissimi giorni dopo, la Trinità amorosa partì per i laghi della Lombardia, con il consueto accompagnamento della madre di Lou. Nei primi giorni del maggio 1882 giunsero al lago d’Orta. Visitarono l’isola san Giulio, e poi salirono verso il Sacro Monte — un bosco, una chiesa e cappelle dipinte dalla pietà popolare della Controriforma, come nel più famoso Sacro Monte di Varallo. Qualche mese più tardi, Nietzsche disse a Lou a bassa voce: «Sacro Monte — il più affascinante sogno della mia vita lo debbo a Lei». Non sappiamo cosa accadde, sebbene quelle poche ore rimanessero per sempre fisse nella memoria di Nietzsche, come un lampo irripetibile e tragico. Con ogni probabilità, egli rivelò a Lou la luce nascosta della sua filosofia, che l’aveva abbagliato l’anno prima a Silvaplana: l’eterno ritorno. Nietzsche le confidò quel pensiero come un segreto, che lo riempiva di un’indicibile orrore: ne parlò soltanto a bassa voce, «e con tutti i segni del più profondo spavento». Era stanco, malato: non aveva più forze per sviluppare il tema dell’eterno ritorno; e lo affidava proprio a lei, unica erede, perché lo rivelasse agli uomini, così da spezzare in due la storia del mondo.
Era l’agosto del 1882. Nietzsche aveva invitato Lou Salomé a Tautenburg, in boschi dove il vecchio Goethe aveva abitato. Tutto era pronto per attendere Lou: Lou avrebbe abitato la casa del pastore insieme alla sorella di Nietzsche, mentre Nietzsche avrebbe dormito nella casa di un contadino. I sentieri dei boschi vennero ripuliti dagli spazzini: cinque panchine adornarono i luoghi di sosta; e una di esse, la più bella, sistemata presso un faggio, portava il nome di La gaia scienza, come un recente libro di Nietzsche. Il tempo passava: sembrava che Lou non dovesse giungere mai: Nietzsche era inquieto, non aveva più fiducia nella ragazza, passava le notti insonne. Finché, un giorno, il gioco di dadi portò un’altra volta un numero fortunato. Il 7 agosto Lou von Salomé e la signorina Elizabeth Nietzsche raggiunsero la casa pastorale di Tautenburg.
Così cominciarono i diciannove giorni che Nietzsche distinse sempre colla più preziosa delle pietre bianche. All’inizio ci furono «discussioni violente », causate dalla gelosia di Elizabeth Nietzsche: poi, ogni cinque giorni, scoppiava «una piccola scena di tragedia », tanta era la tensione tra quelle due personalità insaziabili, che volevano sopraffarsi a vicenda. Lou chiosava: «Essere amici significa poter essere nemici. Essere nemici significa poter essere amici». Una sera Nietzsche le prese la mano, la baciò due volte, e cominciò a dire «qualcosa che non giunse ad essere pronunciato». Non ci furono altri gesti d’amore.
Parlavano sempre, inesauribilmente: talvolta anche dieci ore al giorno, perché i pensieri si intrecciavano e si moltiplicavano come gli alberi della foresta di Tautenburg: talvolta la conversazione continuava dopo cena, al capezzale di Lou; entrambi si sentivano felici di aver appreso tanto l’uno dell’altro. Lou cominciò un diario e un Libro domestico dove, col suo mimetismo poroso, scriveva massime, ora imitando Nietzsche ora Rée, e Nietzsche le annotava e le correggeva e vi aggiungeva le sue. A volte, Lou credeva di essere innamorata del suo vicino: «Due persone si innamorano perché l’intimo di una è la cassa di risonanza in cui riecheggia ogni suono intonato nel petto dell’altro». Poi si chiedeva; «Ma siamo veramente vicini? No, malgrado tutto non lo siamo».
In quei giorni di Tautenburg, Nietzsche avvertì, come mai nella sua vita, la presenza del destino alle sue spalle, che lo spingeva «verso la felicità». Cosa poteva fare se non abbandonarsi a quella figura radiosa, col suo consueto amor fati? Da quando aveva conosciuto Lou, non era più solo: ora voleva re imparare a essere un uomo, entrando ardentemente nella vita. Pieno di speranze, si proiettava verso il futuro, che aveva preso per lui i lineamenti di una ragazza ventenne. «Quello che non speravo più, di trovare un compagno della mia suprema felicità e sofferenza, mi appare ora possibile — come aurea possibilità sull’orizzonte di tutta la mia vita futura ». C’era in lui, a tratti, una paurosa esaltazione: un senso di euforia, trionfo e vittoria, che avevano già il suono tremendo di Così parlò Zarathustra.
Lou era un angelo, uno strano angelo bizantino, che il destino gli aveva inviato. «Quando tornai a avvolgermi verso gli uomini e la vita, credetti che mi fosse stato mandato un angelo — un angelo che mitigasse tante cose che il dolore e la solitudine avevano troppo indurito in me, e soprattutto un angelo del coraggio e della speranza». O forse era qualcosa di molto più profondo: una figura che aveva abitato dentro di lui, nella sua anima e nei suoi scritti; con un gesto di giocoliere sovrano, egli l’aveva tratta alla luce — e ora, lì fuori, c’era lei con la sua crudeltà e il suo splendore, identica alla visione interna. Non gli restava che educarla, curarla, perfezionarla, esaltarla, venerarla, adattarla alla sua anima, come se fosse il più fedele dei doppi.
Non so se Lou Salomé abbia mai visto Nietzsche come l’incarnazione di un dio: uno di quegli dei terribili e venerati, ai quali era impossibile concedersi. Nietzsche amava l’abisso: il proprio, e tutti gli abissi. Anche Lou li amava: aveva in comune con lui l’inclinazione per tutto ciò che è nascosto: era affascinata dalla sua solitudine; e insieme provava una specie di reverente e impaurita resistenza verso i suoi sotterranei misteriosi. Lo criticava. Secondo Lou, malgrado la sua ribellione anticristiana, Nietzsche era un uomo religioso: anzi un eroe religioso. «Non c’è nulla di male a essere senza Dio, purché ci si sia veramente liberati da Dio»: «L’odio di Dio è l’ultima eco dell’amore di Dio». Con la sua acutissima intelligenza, Lou aveva ancora una volta colto nel segno.
Furono mesi di tremenda disperazione e di orribile odio. Nietzsche non faceva che camminare per giornate intere, prendere oppio, passare notti insonni, scrivere decine e decine di abbozzi di lettere a Lou e a Rée, che non osava spedire. «Le passioni mi divorano. Un’orribile compassione, un orribile delusione, un’orribile sensazione di orgoglio ferito — come resistere... Che debbo fare? Ogni mattina dubito di arrivare alla fine della giornata. Non dormo più: a che serve camminare per otto ore?... questa sera prenderò tanto oppio da perdere la ragione». Gli sembrava che un coltello lo colpisse e lo lacerasse contemporaneamente in tutti i punti vulnerabili. Si torturava e aveva bisogno di torturarsi e di venire torturato. «La natura mi ha spaventosamente dotato per essere uno che tormenta se stesso». Aveva avuto nell’anima tre o quattro desideri di felicità; e ora se li strappava sanguinosamente dal cuore. Aveva l’impressione che, in quei mesi, una maschera col nome di Nietzsche avesse amato, agito, scritto lettere, detto parole di cui ora si vergognava. Lui stava dietro quella maschera: in silenzio, «condannato a un’esistenza completamente segreta». Non apparteneva alla realtà a cui appartenevano gli altri: ma a chissà quale mondo. Era un morto: soltanto un morto; «un’ombra che non sa decidersi a entrare definitivamente negli Inferi». Adesso era il tempo di scomparire, lasciando questa terra — anche le montagne di Sils-Maria e il lago di Silvaplana, i boschi di Tautenburg e l’azzurro del Mare Ligure — e le piccole strisce di cielo sereno che aveva dipinto con le parole. Poi si arrestava, per gridare aiuto, semplicemente aiuto. «Pensa, mio caro Overbeck, a trovare qualcosa che mi tiri fuori una volta per sempre. Secondo i miei conti è NECESSARIO che io resti in vita fino all’anno prossimo — aiutami a resistere ancora quindici mesi».
Odiava con tutte le forze del suo abietto rancore, che dedicò sempre alle persone che aveva più amato. Era l’odio del debole, del ferito, del sofferente, dell’indifeso. Ascoltava le menzogne della sorella: le ascoltava per il piacere di torturarsi; e scatenava la paranoia del suo complesso di persecuzione, che ingigantiva e deformava i minimi particolari del passato. Ora aveva il tono di un virtuoso borghese: ora quello di un professore tedesco; ora il tono solenne e sacerdotale di un profeta offeso. Capiva l’anima di Lou con la più straordinaria intuizione: la malediva; e infine la offendeva sanguinosamente, come se volesse
calpestarla e schiacciarla col piede, — infimo e infido verme.
Come Baudelaire, Nietzsche aveva sempre affermato che il senso della sua opera era simile a quello dell’operazione alchemica: trasformare il fango in oro; la passione, la lacerazione dell’odio nella bellezza della frase e nella velocità del ritmo. Negli stessi giorni, Nietzsche compose la prima parte di Così parlò Zarathustra: fu una rivelazione luminosa, il balenio di un fulmine, un’esplosione improvvisa. Ma davvero riuscì a trasformare il fango in oro? Oppure la lacerazione e l’odio stridevano nell’euforia della rivelazione? Qualche tempo dopo, confessò che avrebbe voluto rivedere Lou. Poi rinunciò: si sentiva troppo colpevole.
Tutto cambiò. Alla fine del 1888, nei dolcissimi tramonti dell’autunno di Torino, Nietzsche impazzì: venne trasportato in Germania dal vecchio amico Overbeck: rinchiuso dalla sorella in una specie di sacrario; e il 25 agosto 1900 morì, a Weimar, chi aveva cercato, a Silvaplana, di trovare l’eterno ritorno. Lou Salomé continuò ad affascinare altri esseri umani, che persero per lei la mente e la vita. Ci fu una sola eccezione: il vecchio, iracondo Tolstoj, che aveva accolto Lou a Jasnaja Poljana, insieme a Rainer Maria Rilke. Non la tollerava: non sopportava, specialmente, la sua abitudine di correre ogni mattina, a piedi nudi, nell’erba umidissima dei boschi.
Nel settembre 1912, quando ogni ricordo di Zarathustra era scomparso, Lou Salomé conobbe Freud, frequentò il suo corso di psicanalisi, e partecipò, insieme agli altri allievi, alle famose riunioni del mercoledì. Dopo di allora, dal novembre 1912 al maggio 1936, Freud e Lou si scrissero centinaia di lunghe lettere, che Bollati-Boringhieri pubblica a cura di Ernst Pfeiffer e Mazzino Montinari (Eros e conoscenza.Lettere 1912 - 1936). Qualche volta, queste lettere sono comicissime: «l’organizzazione sadico-anale», «la regressione sadico-anale», «il complesso di mascolinità », «l’isteria d’angoscia», la «libido genitale», «la nevrosi ossessiva», «l’analità non sublimata», le «esperienze genitali latenti», la «rimozione precoce dell’onanismo», che ricamano un fantastico trionfo di parole. Non vorrei mancare di rispetto a Freud. Ma la psicanalisi, intenzionalmente o senza volerlo, è stata una fra le massime fonti di comicità, diffuse nel secolo scorso.
I rapporti tra Freud e Lou Salomé furono sempre molto affettuosi. «Tutti i giorni — scriveva Lou — ci alziamo con lo stesso dovere: comprendere l’incomprensibile »: mentre Freud le rispondeva da Vienna: «Posseggo un coraggio ostinato nella ricerca della verità ». Lou era soddisfatta della propria vita: con una specie di orgoglio e di vanità borghese, che non ricordavano in nulla gli anni giovanili di Roma e di Sils-Maria, quando Nietzsche voleva trascinarla nell’incomprensibile. Verso Freud nutriva una specie di venerazione; e Freud ricambiava questa venerazione, portandola fino all’esaltazione, come se vedesse in lei una creatura soprannaturale, superiore a tutti gli altri esseri umani, e soprattutto agli psicoanalisti.
Un giorno le scrisse: «Io intono una melodia — di solito assai semplice, e Lei vi aggiunge le ottave più alte; io separo le cose, e Lei le riunisce in un’unità superiore a ciò che è stato separato ». Oppure: «Il testo che Lei ha scritto è la cosa più bella che abbia mai letto di Lei: una prova involontaria della Sua superiorità su noi tutti, conforme alle altezze dalle quali Lei è discesa tra noi». Ignoro quali altezze Lou Salomé abbia abitato: tutto il suo genio discendeva dal mito del grande ritorno, dalla grazia e dai riflessi della Gaia scienza, dall’estasi disperata di Zarathustra e dal sovrano gioco delle illusioni. Con sé, attraverso gli anni e le figure di uomini che aveva percorso, Lou Salomé non aveva portato molto d’altro, tranne l’intollerabile fioritura del fascino.

© Pietro Citati
Cultura - La Repubblica, 4 aprile 2010


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